Contro la tenebra: Capitolo Uno

 

Cominciò ad andare tutto a pezzi durante Film Noir da Bogart a Mulholland Drive.

«Una C-meno?» Parker sbatté le palpebre fissando il voto sulla prima pagina del suo saggio, scritto in grassetto e con attorno un cerchio di biro rossa. Gli si strinse lo stomaco. Ci doveva essere un errore. Un altro studente gli diede un colpetto di gomito, continuando a guardarlo finché lui non si allontanò dalla cattedra in modo che anche gli altri potessero trovare il loro compito nella pila. La professoressa di mezza età stava controllando il cellulare accanto alla lavagna, che copriva un’intera parete dell’aula. Squadrando le spalle, Parker le si avvicinò.

«Ehm, mi scusi?»

La professoressa Grindle alzò lo sguardo. «Sì? Hai qualche domanda?»

Parker spinse verso di lei il saggio, con quel corsivo rosso come un’accusa. Abbassò la voce. «Ho avuto una C-meno.»

Lei scorse le tre pagine. «Hai letto i commenti dell’assistente? Penso che ci siano degli ottimi punti che potresti tenere presenti la prossima volta. Più analisi e meno riassunto della trama, per cominciare. Questo mese c’è un altro compito. Non preoccuparti, riuscirai a ingranare…» Lanciò un’occhiata al saggio. «Parker.»

Anche se sapeva che non c’era modo che lei riuscisse a ricordare i nomi di tutti i nuovi studenti, lui sentì una vampata di umiliazione. Alla Westley per poco non era stato scelto per fare il discorso di commiato, ma a Stanford non era nessuno.

Lei continuò. «Sono sicura che Adam sarà felice di essere d’aiuto. Hai gli orari dell’ufficio? Sono sulla prima pagina del programma. Oggi pomeriggio dovrebbe esserci.»

«Guardi, io non… Io sono uno studente da A. Ci dev’essere un errore.»

Il resto della classe era andato via, e la professoressa raccolse gli ultimi compiti rimasti. «Che ne dici di parlare con Adam, e se poi sarai ancora scontento, lo ricontrollerò. Mi dispiace. Devo andare alla prossima lezione.» Uscì dall’aula con le scarpe che picchiettavano sul pavimento.

Parker ficcò quel compito offensivo nella sua borsa da postino, desiderando di poterlo bruciare. Una volta fuori, sbatté le palpebre per il sole e si accasciò sui gradini davanti all’edificio, tirando fuori il telefono. Digitò in fretta un messaggio per Jason, il suo migliore amico della Westley.

Ho preso una C-meno in uno stupido corso di Cinema che dovrebbe essere facile. Mi rovinerà la media! Sto andando fuori di testa.

Facendo ballonzolare una gamba, aspettò che Jason rispondesse, guardando se comparivano quei tre puntini. E aspettò.

E aspettò.

Poi mandò lo stesso messaggio a Jessica, che per tutta la loro vita aveva abitato a tre porte da lui a Cambridge. E aspettò ancora. Era tentato di chiamare Eric a Londra, ma suo fratello sarebbe stato troppo occupato per parlare con lui di uno stupido saggio breve del college, e comunque doveva essere ora di cena. Anche se probabilmente Eric sarebbe stato ancora al lavoro, dato che si occupava anche della Borsa americana.

Continuò a fissare il telefono come se in quel modo potesse far comparire un messaggio dei suoi amici. Era ridicolo. Lui si stava comportando in maniera ridicola. Ma quell’ondata di solitudine era innegabile, e cominciò ad avere il respiro affannato. Era stato così entusiasta di andare a Stanford e farcela da solo, ma non era per nulla come se lo era aspettato.

Guardò i gruppi di persone che ridevano sul prato. Altri studenti gli passarono accanto di corsa sui gradini, e Parker si chiese se si fossero fatti degli amici. Rimase lì seduto con la sua C-meno sentendosi assolutamente, pateticamente solo. Gesù Cristo. Non metterti a piangere, perdente.

Jason e Jessica erano impegnati alla Penn State e alla NYU. Prima del college spesso passavano ore scrivendosi a vicenda, e di rado ci voleva più di un minuto per la risposta. Ma in quel mese, da quando erano cominciate le lezioni, li aveva sentiti a malapena. Jason stava cercando di entrare in una confraternita, e Jessica sembrava avere sull’agenda una lista infinita di lezioni e feste.

Dopo quella che sembrava un’eternità, il telefono si mise a ronzare, e Parker si sentì allargare il cuore.

Amico, ti devi rilassare. Andrà tutto bene. Non è un gran problema. I corsi sono appena iniziati.

Parker sospirò. A Jason non era mai importato molto dei risultati scolastici, con grande irritazione dei suoi genitori. Non avrebbe mai capito che per lui era un grosso problema aver preso una C-meno. In un corso di Cinema a cui si era iscritto solo perché teoricamente era facile.

Jason messaggiò di nuovo:

Trova da scopare. Ci devono essere un sacco di ragazzi sexy a Stanford. A dopo, amico.

Da Jessica non arrivava neanche una parola, e Parker digitò un altro messaggio per Jason:

Sì, giusto. Grz. A dopo.

Jason aveva effettivamente ragione; lui aveva bisogno di scopare. Parker ammetteva di non averci veramente provato, ma era già oberato dai compiti. Non aveva idea di come facessero i suoi amici a uscire così spesso quando lui aveva bisogno di passare tutte le ore libere a studiare per restare in pari. Per lui la scuola era sempre stata facile, ma il college gli dava l’impressione di essere stato buttato di colpo in una piscina molto più profonda.

A ogni modo, bisognava che facesse uno sforzo per incontrare qualcuno. Forse doveva controllare su Grindr o su una di quelle app per appuntamenti gay, e caricare una sua foto. Sì, quello sarebbe stato più produttivo che compatirsi. Accese la fotocamera e si passò una mano fra i capelli tagliati corti.

Erano biondo sporco, non del colore dorato con cui era stato benedetto suo fratello. Una volta Parker se li era schiariti per via delle insistenze di Jessica, ma si era sentito incredibilmente stupido; pareva che stesse cercando di entrare in una boy band o fosse un fan di Draco Malfoy. In un modo o nell’altro, non era un bel risultato. Per cui non gli importava dei capelli, ma avrebbe voluto che il colore degli occhi fosse diverso da quel banale marrone. Jess aveva suggerito delle lenti a contatto azzurre, ma lui aveva puntato i piedi.

Si scattò un selfie con un sorriso forzato. La bocca larga era abbastanza decente; le labbra avrebbero potuto essere un po’ più carnose ma non erano male, ed erano rosse senza dare l’impressione che lui si fosse messo il rossetto. Una bella bocca da succhiacazzi, se doveva dirselo da solo. Aveva i denti bianchi e diritti grazie a una piccola fortuna spesa dal dentista quando era un bambino, il naso era piccolo e abbastanza innocuo. Scattò ancora qualche foto, ma poi, quando stava per scaricare Grindr dall’app store, esitò.

E se nessuno vuole uscire con me? O nemmeno scoparmi?

Lui pensava di essere abbastanza carino, ma se nessun altro lo avesse pensato? C’era un mucchio di ragazzi sexy a Stanford. E se lui avesse messo su le sue foto e poi ci fosse stato solo il silenzio con il frinire dei grilli? Non era ancora successo e già la prospettiva dell’umiliazione gli faceva torcere lo stomaco. Mise via il telefono. Avrebbe scaricato l’applicazione più tardi.

Poi sospirò. Ugh, doveva sistemare quel voto schifoso. Sentiva fastidio in gola, e mentre andava verso l’edificio in cui c’era l’ufficio dell’assistente del corso di Cinema, mandò giù una bottiglietta d’acqua. A ogni passo il senso di fallimento sembrava farsi più profondo, e assieme a quello anche la mortificazione e il risentimento. Non era giusto. Doveva preoccuparsi degli esami di Matematica e Statistica obbligatori per la laurea in Economia; quello stupido corso opzionale non avrebbe dovuto essere un vero e proprio impegno.

Faccio schifo. Avrei dovuto lavorare più sodo. Che dirà papà se lo scopre?

Salì fino agli uffici in cima a un edificio di quattro piani e controllò le targhe sulle porte. Le sue scarpe da ginnastica stridevano sul pavimento, e pareva che ci fosse una tranquillità soprannaturale. Alla fine del corridoio trovò il nome che stava cercando, scritto su un pezzo di carta infilato nello spazio per la targa.

Adam Hawkins: Ricerca su Cinema e Media

Fece una risata derisoria tra sé e sé. Ricerca su Cinema e Media. Non era certo una vera disciplina accademica. Quell’Adam Hawkins doveva essere uno stronzo pretenzioso che indossava maglioni neri a collo alto e occhiali con la montatura di corno. E probabilmente beveva tè e aveva una laurea di primo livello in Filosofia Esistenzialista. E…

La porta si aprì. «Oh, salve. Posso aiutarti?»

Con la gola completamente secca, Parker riuscì solo a gracchiare. «Uh…»

Adam Hawkins non indossava occhiali con la montatura di corno.

C’era sempre la possibilità che avesse dei maglioni a collo alto nell’armadio, ma in quel momento indossava un giubbotto di pelle nera su una camicia azzurro chiaro, e jeans. Era un po’ più alto del suo metro e settantacinque, e il giubbotto di pelle si tendeva sulle spalle larghe. I folti capelli neri erano corti e lucenti – luccicavano, cazzo – e la barba era lasciata incolta ad arte, giusto quanto bastava perché Parker si chiedesse che effetto avrebbe fatto sulla sua pelle.

Lo guardò con occhi tra il verde e il nocciola che avevano degli strani riflessi dorati. «Avevi bisogno d’aiuto?»

«Io sono…» Parker cercò di ignorare il desiderio che gli ronzava nelle vene e di riprendersi. «C-meno.»

«Tu sei C-meno?»

Con le guance bollenti Parker tirò fuori il saggio dalla borsa e lo tenne sollevato, concentrandosi di nuovo sulla sua rabbia. «È quello che mi hai dato per il mio compito, e non è giusto.» Dio, stava piagnucolando. Avrebbe dovuto andarsene. Ridurre le perdite. Comportarsi da uomo.

Adam Hawkins spalancò la porta e fece un passo di lato, dicendo semplicemente: «Va bene.» Poi si sedette alla scrivania e lanciò un’occhiata all’orologio rotondo appeso al muro. «Il mio orario è terminato, ma…» Dalla sua tasca arrivò un ronzio, e sollevò una mano per fargli cenno di aspettare mentre rispondeva al telefono. «Ciao, Tina. Sì, arrivo fra poco. D’accordo.» Sorrise. «Sì. Anche tu.» Poi riattaccò.

«Guarda, se devi incontrare la tua ragazza o quello che è, è tutto a posto,» borbottò Parker.

«È in ritardo, per cui posso restare ancora qualche minuto. È chiaro che sei agitato, e…»

«Non sono agitato!» Parker si appollaiò sulla sedia, muovendo irrequieto i piedi. «Penso solo che ci sia stato un errore. Io non prendo C-meno. Mai.»

«Sei una matricola?» Adam allungò la mano verso il saggio e si mise a guardarlo.

Parker annuì. «Laurea in Economia, ma poi farò Legge.»

Adam continuò a leggere il suo saggio, per poi restituirglielo. «Un sacco di persone pensa che quello sul Cinema sarà un corso opzionale facile. È chiaro che sei intelligente, ma questo saggio pare che sia stato scritto in quindici minuti il mattino in cui dovevi consegnarlo, e senza nemmeno guardare Vertigine

«L’ho guardato!» D’accordo, aveva guardato dei frammenti su YouTube e letto il riassunto su Wikipedia. Quello contava. Aveva afferrato il concetto. O avrebbe dovuto passare il tempo a guardare vecchi film invece di studiare sul serio? Era già immerso fino alle orecchie nella roba da leggere. «Sono sicuro che la professoressa vedrà che merito almeno una B.»

Adam inarcò un sopracciglio. «Lo vedrà? Sembri sicuro di te.»

«Beh, te l’ho detto, io non prendo C-meno. Ho vinto il concorso di ortografia dello Stato quando avevo nove anni. Alla scuola preparatoria ho presentato io la nostra simulazione di sessione delle Nazioni Unite, e ho incontrato il Segretario di Stato! Io non… Io sono meglio di così.»

«Ne sono certo. Per il prossimo compito fa’ il lavoro e riflettici un po’, e i tuoi voti miglioreranno.»

Parker sapeva che aveva ragione, ma tutto quello che riusciva a vedere era quella C-meno sul suo saggio che lo scherniva. Era la terza settimana di lezione e lui già non teneva fede alle aspettative. Si sentiva come se tutti i suoi fallimenti fossero simboleggiati da quel voto. Poteva solo immaginare che cosa avrebbe detto suo padre. «Questo è quello che succede quando non ti concentri. Eric non ha mai…»

«Non ho intenzione di cambiarlo.» La dichiarazione di Adam lo strappò ai suoi pensieri.

Con il battito che accelerava, Parker cercò di non far trapelare la disperazione nella sua voce. «La mia media è sempre stata perfetta. Tranne una volta. Ma non può succedere di nuovo. Non posso prendere una C-meno. Devi cambiarla.»

«Devo?» Adam si mise a ridere. Si mise veramente a ridere.

Parker si sentì riscaldare, e sapeva che la cosa gli stava sfuggendo di mano. Doveva ridurre le perdite e andarsene ancora con un brandello di dignità, ma non riuscì a impedire che l’indignazione lo trascinasse. «Non ridermi in faccia! Chi pensi di essere? Questa non è nemmeno una vera materia accademica.»

Adam si limitò a guardarlo con un sopracciglio inarcato. «Penso di essere l’assistente che non cambierà il tuo voto, non importa quante stronzate presuntuose gli tiri addosso. Per cui attaccati e cerca di imparare qualcosa da questa faccenda.»

Parker sarebbe voluto saltare su e scappar via, ma rimase congelato sulla sedia nel silenzio che seguì, rosso in faccia per la vergogna.

Adam sospirò, e ammorbidì il tono. «Scommetto che al liceo hai fatto il discorso di commiato, vero? Il ragazzo più intelligente della scuola? Ma Stanford non è il liceo. Il passaggio può essere difficile.»

Arrossì di nuovo. No, non aveva fatto il discorso di commiato. Aveva fatto quello di inaugurazione – vale a dire che era al secondo posto, vale a dire perdente grazie a Greg Mason e al suo risultato perfetto alla finale di Aritmetica, roba da record. Come sempre lui era stato una delusione, e adesso aveva preso una C-meno, e non si era fatto nessun amico, e si odiava più di quanto non avesse mai fatto. Avrebbe dovuto essere capace di lasciar perdere.

«Dovrai lavorare duro in ogni corso. Perfino se pensi che sia roba da bambini. So che può essere un vero e proprio shock quando per la prima volta nella tua vita le cose non accadono facilmente.»

Parker perse il controllo. «Ho sempre lavorato duro. Sto lavorando duro! Tutto quello che faccio è studiare. E cose importanti, comunque. Io diventerò un avvocato. Tu che cosa diventerai?»

Adam rimase impassibile. «Sto prendendo un master in Regia di documentari.»

«Probabilmente finirai col lavorare in un merdoso reality show,» borbottò Parker. Si stava comportando da stronzo, ma in quel momento non gliene importava abbastanza da stare zitto.

Spingendo indietro la sedia, Adam si alzò in piedi. «Se è tutto qui, ho delle cose da fare, oltre a sopportare certi atteggiamenti da parte di una matricola pigra che si aspetta di vedersi servire tutto su un vassoio d’argento.»

Parker balzò in piedi. «Tu non mi conosci.»

«Conosco il tuo tipo. Ho incontrato un migliaio di…» sollevò il saggio e lesse il nome, «Parker Osborne, nella mia vita.»

Afferrando di nuovo il saggio, Parker cercò di pensare a qualcosa da dire. Poi sbottò: «Mollerò questo stupido corso.»

Adam gli lanciò un’occhiata neutra. «D’accordo.» Poi si mise a controllare il telefono. Dopo pochi istanti, Parker girò sui tacchi a denti stretti. Diviso tra mortificazione e rabbia, mentre usciva dall’edificio, strappò in due il saggio e lo ficcò in un cestino della spazzatura. Poi tirò fuori il telefono per controllare l’ora e si mise a correre, imprecando fra sé e sé. La lezione di Statistica cominciava fra due minuti, e lui non sarebbe mai riuscito ad arrivare in tempo. Non era neanche mezzogiorno e si sentiva già pronto ad andarsene a letto e chiudere quella giornata di merda.

 

***

 

Avrebbe veramente dovuto andarsene a letto.

Invece si trovava in una stanza vuota, seduto in cerchio con un mucchio di gente che pareva capace di fumare erba e giocare a Hacky Sack allo Stanford Oval, il grande spiazzo ovale. Si agitò sulla sedia di legno, chiedendosi se non potesse semplicemente alzarsi e andare via nel bel mezzo della storia della lesbica sulla sua lotta per far aggiungere dei prodotti vegan nel menu della mensa. Non aveva niente contro le lesbiche o i vegan (o le lesbiche vegan), ma era chiaro che non era adatto a quel gruppo LGBT studentesco. L’attivismo proprio non era il suo genere.

Aveva visto il volantino sugli incontri del gruppo dopo la lezione, e aveva deciso che era ora di smetterla di compiangersi e cercare di farsi degli amici. O di seguire il consiglio di Jason e magari rimorchiare un ragazzo sexy.

Ovviamente l’unico ragazzo a cui riusciva a pensare era Adam Hawkins. Aveva passato tutto il giorno a rivedere mentalmente il loro incontro, immaginando risposte salaci e insulti feroci. Non che lo avrebbe rivisto, grazie a Dio. Il giorno dopo, per prima cosa avrebbe mollato quel corso. Avrebbe scelto un altro opzionale il semestre dopo, o in estate, se doveva.

«Che ne pensi, Parker? È Parker, giusto?» La bionda che aveva parlato gli fece un sorriso incoraggiante.

Merda. «Uhm, penso che sia fantastico. Pare un buon piano.»

Lungo il cerchio si sentì un mormorio, e un ragazzo asiatico basso con un piercing al sopracciglio prese la parola. «Pensi che dovremmo fare un sit-in finché la scuola non mette al bando tutti i prodotti a base di carne e di latticini? Non ti pare un po’ estremo?»

Si sentì addosso dodici paia di occhi. «Ehm… otterrebbe la loro attenzione, però. E allora forse sarebbero disposti a un compromesso?»

«Esattamente!» esclamò la bionda.

Mentre tutti quanti si mettevano a discutere i meriti dell’attivismo in campo alimentare, Parker sogguardò il ragazzo carino seduto accanto a lui. Capelli rossicci, occhi verdi, fisico minuto. Finora aveva detto poco o nulla. Forse neanche lui si sentiva al posto giusto? Era difficile capirlo. Magari era simpatico, però. Se non altro, era decisamente sexy. Non conoscerò nessuno, se non ci provo.

Chiamando a raccolta il coraggio, si chinò verso di lui e sussurrò: «La carne posso capirlo, ma niente latticini? E niente cioccolato? Non varrebbe la pena di vivere.»

Il rosso lo guardò con espressione indecifrabile. «Il cioccolato è sopravvalutato.»

«Uh, sì, certo.» Parker agitò la mano. «Stavo solo scherzando.»

Il ragazzo gli sorrise. Mhm. Un momento, stava scherzando anche lui? Il cioccolato piaceva a tutti, giusto? Con il cuore che martellava, sussurrò: «Ti va di andare a prendere un caffè più tardi? Potremmo vivere pericolosamente e ordinare un cappuccino con del vero latte.»

Per favore, di’ di sì. Per favore, di’ di sì.

Il rosso lo squadrò dalla testa ai piedi come un riflettore che non trovava nulla. Quando il ragazzo si incollò in faccia un sorriso, a Parker venne voglia di vomitare.

«Sei molto dolce, ma dopo la riunione ho parecchio da studiare.» Poi si voltò di nuovo verso il gruppo. «Marjorie? Potremmo discutere della Kappa Sigma, che lo scorso weekend ha assaltato la nostra vendita di prodotti da forno cruelty-free? Penso che dovremmo fare una richiesta agli amministratori…»

Mentre loro discutevano qualcosa riguardante un’empia alleanza tra biscotti alla cannella e preservativi, Parker desiderò che il pavimento di piastrelle malconce si aprisse a inghiottirlo. Purtroppo, a quanto pareva, anche il pavimento era vegan, perché lui rimase esattamente dove stava, con il viso in fiamme, sicuro che tutti avessero sentito come era stato scartato.

Si maledì da solo per aver pensato che fosse una buona idea partecipare a quell’incontro, tanto per cominciare. Aveva davvero bisogno di incontrare altri gay in occasioni ufficiali? Forse avrebbe dovuto semplicemente fare domanda in una confraternita e fare buon uso delle sue capacità di succhiacazzi, come aveva fatto al liceo. Non aveva bisogno di un ragazzo, comunque. Ma ne voglio uno.

Il ricordo della vergogna lo invase, unendosi alla nuova umiliazione di essere stato rifiutato dal rosso. Aveva cercato di baciare Greg Mason una volta, e riusciva ancora a sentire il pavimento di piastrelle fredde e bagnate della doccia; era finito con il culo a terra, con Greg che lo fissava torcendo le labbra. «Non fare il frocetto.»

Il fatto che a diciotto anni non avesse mai veramente baciato nessuno era così patetico che riusciva a malapena a sopportarlo. Stando seduto lì nel cerchio degli studenti LGBT, che probabilmente avevano baciato una dozzina di persone, si sentiva come se avesse un’insegna al neon che gli campeggiava sulla testa.

Perdente! Perdente! Perdente!

Ma che senso aveva trovarsi un ragazzo, comunque? Non era che lui potesse portare qualcuno a casa. I suoi genitori avevano fatto del loro meglio – lo avevano fatto sul serio –, ma che lui fosse gay li metteva terribilmente in imbarazzo e a disagio. Senza considerare che – lo sapeva – i loro amici ricchi al country club di sicuro non avrebbero approvato. Si chiese che cosa avrebbe detto suo padre se lui si fosse messo a uscire con un hippie contrario al sistema. Il pensiero lo fece scoppiare a ridere.

Varie teste si voltarono verso di lui. «C’è qualcosa che vorresti condividere con noi?» chiese la bionda, con un sorriso un po’ teso.

Prima che Parker potesse rispondere, un ragazzo bianco con i dreadlocks lo interruppe, fissando accigliato il telefono. «Wow. Avete visto questo? Ci sono delle sommosse o qualcosa del genere a New York.»

«Per cosa stanno protestando?»

«Probabilmente non per la carne e i latticini, Abrah.»

«È Occupy Wall Street? Lo spero. Ho sentito dire che stanno cercando di tornare sulla breccia.»

«Non saprei. Oh, aspetta, è anche a Washington. Probabilmente si tratta di brutalità poliziesca.»

Mentre tutti cominciavano a parlare e controllare i telefoni, Parker si mise a tracolla la borsa da postino e andò dritto alla porta. Scappò verso il Quadrangolo, e mentre andava al suo dormitorio, afferrò un sandwich (tacchino e formaggio Havarti, grazie tante). La sala comune era piena di gente che guardava la CNN, ma lui non si interessò alle proteste, o sommosse o qualsiasi cosa stesse succedendo. Probabilmente avrebbe dovuto ma aveva troppo da leggere, soprattutto dopo il tempo sprecato con quella riunione.

L’imbarazzo lo inondò di nuovo mentre pensava al modo in cui il rosso lo aveva esaminato e messo da parte. Poi gli riecheggiò in testa la voce di Adam Hawkins che lo definiva una matricola pigra.

«Io lavoro duro quando ha importanza. Ugh, è un tale stronzo,» borbottò mentre chiudeva la porta dietro di sé con un calcio.

«Chi è uno stronzo?»

«Gesù!» Sentì il cuore che saltava un battito. «Non fare così.»

Con un sorriso, Chris si infilò una maglietta sulla testa rasata. «Spiacente, amico. Sono tornato per fare un po’ di bucato.» Si annusò un’ascella. «Il deodorante è la migliore invenzione di tutti i tempi.»

«Non ti ho rivisto dopo l’ONS.» L’orientamento dei nuovi studenti era stato una settimana di attività obbligatorie destinata ad aiutare le matricole ad ambientarsi e a fare amicizia. Parker aveva imparato come orientarsi, ma aveva completamente fallito nell’incontrare qualcuno con cui stabilire un legame. Chris era abbastanza simpatico, ma sentì un’altra fitta di nostalgia per Jason e Jessica. Si schiarì la gola. «Come va con Michelle?»

«Uno spettacolo. Seriamente, le sue tette sono…» Chris si portò le dita alla bocca per baciarle. «Bellissime. Ho trovato la donna dei miei sogni.» Si strinse nelle spalle. «Almeno per adesso. Ehi, anche la sua compagna di stanza non è niente male. Vuoi tornare di là con me? Ho dell’erba di prima scelta; potremmo rilassarci e giocare a Call of Duty. Scommetto che, prima della fine della serata, ti farà un pompino.»

Parker ridacchiò. In fatto di pompini era sicuro di poter dare dei suggerimenti alla compagna di stanza di Michelle. «Nahhh. Ho un sacco da leggere. Domani c’è già il test di Economia.» Forse avrebbe dovuto passare del tempo con loro, ma non aveva avuto la possibilità di uscire allo scoperto con Chris, e non aveva nessun interesse per l’erba. A volte si sentiva come se dopo i diciotto anni fosse sul punto di compierne quarantacinque. Per lui andare alle feste e sballarsi non erano mai stati un divertimento.

«Perfetto. Se cambi idea, fammi uno squillo.» Chris sollevò la mano mentre andava verso la porta.

Parker batté il cinque e si lasciò cadere sul letto. «Più tardi.»

Nel silenzio che seguì, Parker si ritrovò a sentire la mancanza del quasi continuo tunz- tunz della musica house che piaceva alla ragazza della stanza accanto. Forse stava guardando i notiziari nella sala comune. Ultimamente i canali di notizie trattavano qualsiasi cosa come se fosse una faccenda enorme, e lui non vedeva motivo di agitarsi.

Fissò il letto vuoto di Chris. Jason era stato il suo compagno di stanza per tutti gli anni alla Westley, per cui sarebbe stato carino avere una camera virtualmente tutta sua, tanto per cambiare. Avrebbe dovuto essere fantastico.

Ma non lo era.

Tirò fuori il cellulare. Niente messaggi da Jessica. Fece il suo numero e rimase ad ascoltare gli squilli, sospirando quando scattò la segreteria.

«Parla Jessica. Presto, lasciate un messaggio prima che i telefoni diventino completamente obsoleti.»

Per un attimo Parker rimase bloccato dall’indecisione, poi toccò lo schermo e chiuse la chiamata. Che cosa avrebbe potuto dire che non suonasse patetico al novantanove percento?

«D’accordo, basta così.» Nel silenzio della stanza la sua voce risuonò forte. «È ora di rimettersi al lavoro.»

Dopo aver divorato il suo sandwich, aprì i libri. Il dormitorio era più tranquillo del solito; mise il telefono in modalità aereo e si perse nelle teorie sul libero scambio. Alle otto gli si chiudevano gli occhi dal sonno; impostò la sveglia per le nove e si sdraiò per un pisolino. Stava andando alla deriva quando sentì la voce penetrante di una ragazza riecheggiare nel corridoio.

«Sta succedendo a San Francisco!»

Alzando gli occhi al cielo, Parker infilò gli auricolari e si girò verso il muro. Avrebbe controllato le notizie più tardi, quando ci sarebbero state delle vere informazioni, invece di mere ipotesi che speculavano sulla paura. Che continuassero pure a protestare contro le multinazionali o la polizia o qualsiasi cosa stessero facendo. Lui doveva preoccuparsi della sua media.

 

***

 

Quando si trascinò fuori dal letto, erano le dieci e mezza. Aveva ancora addosso jeans e maglietta, e si chiuse addosso la lampo di una felpa verde prima di infilarsi le scarpe da ginnastica. La passeggiata di un quarto d’ora verso la caffetteria lo avrebbe svegliato, e caffeina e zucchero lo avrebbero tenuto in moto tutta la notte. Aveva bisogno di risultati migliori. Aveva bisogno di un voto fantastico, in quel test. Avrebbe ottenuto un voto fantastico, in quel test.

Si rimise gli auricolari e circumnavigò la gente riunita nella sala comune.

«Ehi, Parker. Hai visto questa roba?» Mike, che stava due stanze più in là – un tipo abbastanza simpatico, ma ossessionato dagli sport –, lo chiamò mentre lui passava di fretta.

«Più tardi, amico. Ho bisogno di caffè.» Lo salutò con la mano e accese la musica. Probabilmente stavano guardando la partita di baseball, dato che agli Oakland A mancava una sola vittoria per arrivare ai playoff, ma lui non poteva permettersi di distrarsi.

Aveva imparato quella scorciatoia la prima settimana, dopo che il sorvegliante del dormitorio gli aveva confiscato la sua macchinetta del caffè italiana. L’aria notturna era frizzante, e Parker ficcò le mani nelle tasche della felpa mentre avanzava negli anfratti fra gli edifici. Colse degli scorci del quadrangolo principale, dove c’era un sacco di gente. Probabilmente si trattava di una confraternita; meglio evitarli e tornare ai libri il più in fretta possibile.

Ma si chiedeva per cosa fossero state le sommosse o quello che erano, e tolse la modalità aereo per poter controllare su Google. Appena il telefono fu riconnesso, cominciò a vibrargli in mano, e lo schermo si riempì di notifiche. Niente da Jessica o Jason, e Parker avrebbe voluto non sentire quella fitta di delusione e sentimenti feriti. Non era colpa loro se si stavano ambientando e facendo amici al college. Non poteva aspettarsi che avessero tempo per lui come una volta. Faceva comunque male, però.

Se lo scrollò di dosso e si concentrò sullo schermo. «Sette chiamate perse da mamma?» mormorò con un sorriso. «Un classico.» Quando aveva in mente qualcosa, era come un mastino con un osso. Mentre continuava a camminare, ascoltò il messaggio che gli aveva lasciato in segreteria.

«Tesoro.» La registrazione era piena di scariche statiche e confusa, con dei rumori di fondo. Si fermò per ascoltare meglio. Non riusciva a capire le parole seguenti. Poi sentì: «La casa sul Capo. Ti amiamo tanto.» Il messaggio terminò.

Huh. Quello era strano.

Perché avrebbe dovuto chiamarlo per parlargli della casa sul Capo? I suoi genitori passavano a Chatham quasi tutti i weekend di settembre, ma era martedì. Cancellò il messaggio e ricominciò a camminare. L’avrebbe chiamata una volta tornato in dormitorio, o magari avrebbe aspettato il mattino dopo. Sulla costa orientale era mezzanotte passata.

Mentre passava dietro l’edificio di Scienze, si fermò di colpo. Vicino a una palma c’erano Adam Hawkins e i suoi zigomi assurdi. Ovvio; prima di quel giorno non lo aveva mai visto, e adesso era praticamente condannato a incontrarlo in continuazione.

Adam aveva un casco da moto in mano, e aveva sostituito i mocassini con degli scarponi neri da lavoro. Aveva addosso gli auricolari e stava fissando lo schermo del cellulare con un profondo cipiglio.

Ugh.

Adam lo guardò e si tolse gli auricolari con un’occhiata dura. «Prego?»

Parker si rese conto che doveva averlo detto ad alta voce. Mise in pausa la playlist e si schiarì la gola, cercando di ricordarsi una del milione di risposte salaci che aveva pensato quel pomeriggio. «Uhm, niente.» Ovviamente gliene sarebbe venuta in mente una decina abbondante, un attimo dopo esserselo lasciato alle spalle. Il che non sarebbe mai successo troppo presto. Con quel giubbotto di pelle nera e la barba lunga era ridicolo. Ridicolmente sexy, il che non era giusto, dato che era un fissato di film. Un documentarista, addirittura! Per non parlare del fatto che era un condiscendente so-tutto-io. Parker continuò a camminare.

«Non dovevi lamentarti con il rettore,» disse Adam alle sue spalle.

Parker si fermò e si voltò a guardarlo. «Eh?»

«Vuoi seriamente fingere di non essere stato tu? Devo incontrare la professoressa Grindle e il capo dipartimento alla fine della settimana perché uno studente con i genitori ricchi ha sollevato un polverone. Lei non ha detto chi, ma non ce n’era bisogno.»

«Non sono stato io.» Quando Adam sbuffò e cominciò ad allontanarsi, Parker non riuscì a impedirsi di seguirlo. «Ehi! Non sono stato io, stronzo.»

«Sarei io lo stronzo?» Adam si voltò tenendo stretto il casco, con le narici dilatate. «Ogni anno vedo ragazzini come te seguire i miei corsi. Ragazzini a cui non importa niente dell’arte e che vogliono solo un voto facile. E adesso stai mettendo a rischio il mio futuro. Questo lavoro è tutto per me. Il mio master è tutto.»

«Primo, chi dice che non mi importa dell’arte? L’arte mi piace eccome, grazie tante. Suonavo la viola nell’orchestra della scuola, se proprio vuoi saperlo. E come ho detto, non sono stato io. Comunque come vuoi, amico. Tu non vali la pena. Io ho da fare delle cose importanti, tipo studiare per il test di Economia.»

«Uh-huh.»

«Eh? Che dovrebbe voler dire?»

«Il diciottenne pensa di sapere tutto.» Adam scrollò le spalle, con quel lampo di passione di nuovo nascosto dietro un’espressione piatta. «Se dici che non sei stato tu, suppongo che sia vero.»

Gesù, quel tipo era davvero una seccatura. «E tu quanti anni hai, ventidue? Quanto sei saggio.»

«Ventitré, in realtà.»

«Oh, questo cambia tutto. Come ti pare. Non è che devo per forza stare a parlare con te.»

«D’accordo.» Scrollò di nuovo le spalle; adesso era assolutamente calmo.

«Economia è molto più importante che sezionare dei film.»

Adam lo guardò con espressione imperscrutabile. Proprio come con quel rosso carino, si sentì come se lo stesse valutando e trovando tragicamente carente. «D’accordo.»

«Smettila di dirlo! Mio Dio, ma perché sto facendo questa conversazione?» Parker gli passò accanto e avviò la musica, anche se adesso stava andando nella direzione sbagliata rispetto alla caffetteria. Avrebbe fatto il giro, visto che non poteva tornare indietro. «Buona vita,» commentò mentre se ne andava. Se Adam rispose, lui non lo sentì al di sopra della musica.

Non avrebbe mai mollato quel corso abbastanza in fretta. Avrebbe dovuto sapere…

Un grido perforò la notte, così forte che lo sentì sopra la nuova canzone di Macklemore. Si strappò via gli auricolari e si guardò attorno, poi lui e Adam si fissarono. «Hai sentito…»

«Sì,» replicò Adam, teso.

In distanza l’urlo aumentò, e si unirono altre voci. Parker sentì il cuore martellare. «Come rituale di umiliazione dev’essere tremendo.»

Il clamore aumentò, con altre grida che gli fecero rizzare i peli sulle braccia. Una ragazza e un ragazzo arrivarono di corsa da dietro l’edificio. «Che sta succedendo?» urlò Parker.

«Stanno uccidendo tutti!» strillò la ragazza, sorpassandolo a occhi sbarrati.

Da dietro gli edifici stavano arrivando altri studenti, e Parker li osservò mentre il suo cervello cercava di elaborare quello che stava succedendo. Poi venne strattonato così forte che pensò gli si fosse slogata una spalla. Adam lo tirò ancora più avanti e sì, si mise a correre. Correre!

Parker non aveva sentito nessuno sparo, ma le urla riempivano la notte. Non aveva idea di dove stessero correndo, ma seguì la folla… e Adam Hawkins. Più avanti c’era ancora più gente accalcata nella strada dietro la biblioteca, e alla luce dei segnapasso di sicurezza vide della vernice rossa spruzzata in aria e sugli studenti che erano inciampati. Sopra se ne ammucchiarono altri, con occhi innaturalmente spalancati e sporgenti.

Sciamarono tutti in preda a una disperazione frenetica, e quando uno di quelli morse in faccia un ragazzo che indossava una maglietta della Sigma Nu, Parker capì che quello che schizzava per aria era sangue.

«Da questa parte!» Adam lo spinse in uno stretto vicolo.

Parker voleva urlare; l’impulso a farlo era come un uccello che gli batteva le ali nel petto, ma fece un respiro ansimante e continuò ad andare, con i piedi che martellavano l’asfalto. Adam, che era circa sei metri più avanti, si voltò a guardare.

«Più in fretta!»

Parker corse più forte, pompando con le braccia; gli bruciavano i polmoni. Più in fretta, più in fretta, più in fretta. Ma non riusciva a tenere il passo.

Adam si voltò a guardare ancora un paio di volte, gridando: «Continua a correre!» Poi accelerò in maniera apparentemente impossibile e scomparve alla fine del vicolo.

Oh, cazzo. Oddio. Parker voleva gridargli di aspettare, ma era già sparito. Teneva ancora in mano il cellulare con gli auricolari penzolanti; li strappò via e illuminò lo schermo mentre rallentava. Doveva chiamare il nove uno uno. Era da solo, a parte che – oh, Gesù Cristo, cazzo – non era affatto da solo, perché adesso i pazzi stavano arrivando nel vicolo, con gli arti che si muovevano a scatti, in una specie di staccato, e… che cazzo stava succedendo?

Accelerò di nuovo, boccheggiando in cerca d’aria; il vicolo sembrava più lungo di prima. Era da solo e sarebbe morto, cazzo, ed era in trappola, e cazzo, doveva essere un sogno, perché non poteva essere reale, ma quelli stavano guadagnando terreno e…

Un fanale lo accecò. Al di sopra del bizzarro clicchettio della gente che si stava avvicinando – una specie di strano canticchiare, e denti che sbattevano –, sentì un motore. Si fermò di colpo e sollevò un braccio per schermarsi mentre una moto si precipitava nel vicolo. Il guidatore la fermò con un testacoda, facendo stridere i freni.

«Salta su!» gridò Adam, afferrandolo con una mano. Nell’altra teneva ancora il casco, e lo sbatté sulla testa di un uomo che cercava di afferrare Parker.

Lui inforcò la moto e gli mise le braccia attorno alla vita. «Va’, va’!»

Il clicchettio si fece più forte e delle mani insanguinate li artigliarono; una si agganciò al suo cappuccio. La felpa gli si strinse sulla gola strangolandolo per un terribile istante, finché la moto non si liberò con uno scatto e girò l’angolo.

Si aggrappò in equilibrio precario, affondando le dita nel giubbotto di pelle di Adam. Le vie principali del campus erano piene di auto e i fanali illuminavano branchi di persone che erano diventate simili ad animali, e che mordevano gli studenti fra urla riecheggianti. Adam manovrò abilmente la moto, facendosi strada attorno a mucchi di corpi che si contorcevano.

Degli elicotteri si muovevano in cerchio a distanza, inutili, sopra il pandemonio di Palo Alto. Come aveva fatto a non sentirli prima? Poteva solo tenersi aggrappato mentre Adam zigzagava su prati e marciapiedi. «Dove stiamo andando?» La sua voce era sottile e tremula. Dio, aveva una sete tremenda.

«Alla riserva naturale,» gridò Adam.

Doveva essere un incubo, cazzo. Non poteva essere reale. Era impossibile. Sentì la mente vorticare mentre facevano il giro del lago Lagunita, con le sponde umide paludose dopo i temporali estivi degli ultimi giorni. «E poi?»

Adam accelerò al massimo, e affondarono nell’oscurità del campo da golf. Non gli rispose.

Copyright © Keira Andrews and Sara Linda Benatti (translator)

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