Semper Fi (Italian Translation): Capitolo Uno

 

1942

Mentre attraversava il fiume Rappahannock lasciandosi dietro del fumo nero, il treno traballava; i canti sguaiati e la baraonda dei suoi passeggeri coprivano lo scricchiolio del legno dei vecchi vagoni. Quando Cal inciampò, una mano ferma si posò sul suo braccio per non farlo cadere; allora sorrise all’uomo, prima di buttarsi sul sedile di fronte a lui. Gli allungò una bottiglia. «Ti va un sorso? Dovrebbe essere bourbon.»

L’uomo abbozzò un mezzo sorriso. «Certo.» La prese e bevve a canna. Cercò di nascondere una smorfia di disgusto, ma non gli riuscì bene. «Non mi sono mai piaciuti i superalcolici.»

«Be’, in difesa del bourbon, devo dire che non è proprio il migliore del Kentucky.» Cal guardò fuori dal finestrino ricoperto di graffi e della bava del tizio accanto a lui che ci dormiva appoggiato. Il sole al tramonto tingeva l’orizzonte di arancio, mentre spariva dalla visuale. «Stento a credere che domani mattina saremo già in Carolina del Sud. Certo, sempre che questo vecchio trabiccolo non vada in mille pezzi lungo il tragitto.»

In mezzo al vagone scoppiettava una stufa che nel gelido gennaio sprigionava solo un po’ di tepore. Cal batteva i denti per via degli spifferi, rimpiangendo di non aver portato una giacca più pesante. Ma pensava che presto avrebbero smesso i loro abiti da civili per indossare le uniformi e che, nel giro di poco, si sarebbe ritrovato ad avere nostalgia del freddo invernale.

«Speriamo di imbarcarci su una nave più solida,» disse l’uomo prima di passare la bottiglia a una recluta di fianco a lui che interruppe una canzone da marinaio irlandese per mandar giù un quarto di quella robaccia.

«Comunque, io sono Cal,» si presentò, tendendogli la mano. «Cal Cunningham.»

«Jim Bennett.»

Se anche Jim aveva notato quanto la pelle di Cal fosse più liscia della sua, non disse niente. I suoi capelli pettinati con cura erano di un biondo probabilmente schiarito dal sole ed era il ritratto della salute, il che suggeriva che passasse molto tempo all’aria aperta. Sul naso aveva lentiggini chiare e indossava una camicia blu che non si intonava coi suoi occhi lucenti.

Mentre gran parte degli altri recitava dei versi spiritosi su un uomo di Nantucket, dai carboni ardenti si alzò una folata d’aria fresca. Cal fece una risatina mesta. «Immagino che questo sia il modo in cui il Corpo dei Marines ci dice che non dobbiamo aspettarci chissà quali agi là dove stiamo andando.» Riprese la bottiglia e buttò giù un altro sorso. «Di dove sei?» chiese a Jim.

«Di vicino Tivoli, un buco nello stato di New York.»

«Allora probabilmente eravamo sullo stesso treno per Washington. Io vengo da Manhattan.» Cal pensava di aver osservato bene tutti, ma si sarebbe ricordato del bel Jim dagli occhi azzurri. «Quanto dista Tivoli da New York?»

«Un tre orette.»

«Be’, si potrebbe quasi dire che siamo vicini di casa.»

Jim sorrise. «Credo di sì. Non sono mai uscito dalla valle dell’Hudson prima d’ora.»

Cal scoppiò a ridere prima di rendersi conto che diceva seriamente. Si passò una mano tra i capelli folti. «E che cosa fai nella vita? No, aspetta, lasciami indovinare. Sei agricoltore.»

«Più o meno. La mia famiglia ha un meleto. E tu?»

«Lavoro anch’io nell’azienda di famiglia, per così dire. Ma in realtà, non faccio molto.» Si mise in bocca una sigaretta e allungò il pacchetto a Jim, che rifiutò. Allora Cal tirò fuori l’accendino e se l’accese.

Il vagone era illuminato da un paio di lampade al cherosene, che creavano un gioco di luci e ombre sui volti delle reclute. In quel bagliore tremolante, Jim aveva un’aria serena. Sembrava aspettare che Cal dicesse qualcos’altro.

Buttando fuori il fumo, Cal si sporse in avanti e nel frastuono generale spiegò tranquillo: «Dopo Princeton, mio padre dava per scontato che andassi a lavorare per lui. Mi ha dato un ufficio con una vista spettacolare sulla Statua della Libertà e compagnia bella. Ma non ho mai avuto molto da fare. Non si fida di me per le cose importanti».

Jim afferrò il concetto. «E di cosa vi occupate?»

«Finanza.»

«Non intenderai mica… la cassa di risparmio Cunningham?»

«È l’orgoglio di mio padre, la luce dei suoi occhi. Mio nonno arrivò dalla Scozia e si costruì da solo un piccolo impero. Io sono Calhoun Cunningham terzo, immagino che un giorno sarà tutto mio.»

Jim scosse la testa e rise incredulo. «Cavolo, ma non potevi farti nominare ufficiale dell’Esercito o della Marina? Com’è che sei finito qui?»

Le ruote del treno stridevano mentre proseguivano verso sud. Cal alzò le spalle e sorrise. «Non mi è venuto in mente altro che potesse far incazzare il mio vecchio quanto entrare nei marines.»

Jim ricambiò il sorriso. «Immagino che sia un motivo come un altro per arruolarsi.»

«Ma non fraintendermi. Sono ben felice di combattere per la patria e sconfiggere le forze del male. E tu, invece?» Si riappoggiò allo schienale, diede un bel tiro di sigaretta e si mise comodo.

«Dopo che i giapponesi hanno colpito Pearl Harbor, mi sono arruolato appena ho potuto. Ultimamente mio padre ha avuto qualche problema di salute, ma se ne prenderà cura mia moglie.»

Per un istante, Cal restò deluso. Non che avesse pensato che il bell’agricoltore Jim non fosse un tradizionalista. «Sposato, eh? Cos’è, si è fatta mettere la fede al dito prima che partissi?»

«No, poco dopo le superiori. Ho preso alcune lezioni serali al college delle mie parti e lì ho incontrato Ann. Lavorava alla caffetteria.» Aprì il portafoglio e gli passò la foto di una brunetta assieme a una bambina. «Sono mia moglie e mia figlia, Sophie.»

«Che bella famiglia. Quanti anni ha?» chiese Cal, indicando la bimba.

«Due e mezzo. È nata il giorno che ho compiuto vent’anni.» Jim guardò la foto e sorrise tristemente. «È la mia principessina.» Quando iniziò un’altra canzone sconcia, si guardò in giro e la mise via. «E tu, sei sposato?»

Cal sogghignò. «No, in ventiquattro anni nessuna donna è riuscita a incastrarmi.» Non aggiunse che non ci sarebbe nemmeno mai stata.

Il treno sussultò in modo allarmante. Le ruote cigolarono e tutti si tennero fermi a qualcosa. Una recluta alla fine del vagone aprì le braccia per stare in equilibrio sul sedile. «Ragazzi, ci conviene cantare ora che siamo in treno, mi sa che non vivremo abbastanza a lungo per vedere il campo di addestramento, figuriamoci la guerra!» Quindi si mise a cantare Chattanooga choo choo, e neanche malaccio.

Quando si unirono al coro, Jim e Cal si scambiarono un sorriso.

* * * * *

 1948

Mentre oltrepassava con la sua Cadillac l’insegna dipinta con su scritto in chiare lettere Frutteto Clover Glove sopra una mela rossa sbiadita, Cal aveva la gola più secca della strada polverosa. La ghiaia colpiva il telaio dell’auto, che fino ad allora aveva percorso solo viali lastricati di città. La stradina sterrata faceva un paio di piccole curve prima di arrivare alla fattoria a due piani. Accostò di fianco a un furgoncino grigio arrugginito e poi spense il motore.

La porta d’ingresso della casa in legno bianco era blu scuro, c’erano delle finestrelle e il secondo piano era coperto da un tetto a tegole. Era proprio come Cal immaginava una fattoria. Semplice e senza fronzoli. Costruita a regola d’arte ma accogliente. A sinistra c’era un piccolo fienile con la vernice verde che si scrostava. Lì accanto, una mucca e due cavalli passeggiavano all’interno di una zona recintata ricoperta d’erba secca e poco distante si trovava una grande rimessa che fungeva da magazzino.

Più avanti, il terreno scendeva giù fino al frutteto, dove filari e filari di meli si estendevano a perdita d’occhio. Cal scese dall’auto e si stiracchiò un po’, inalando l’aria di inizio primavera. Scorse un movimento in cima alla salita e Jim apparve sulla cresta della collinetta, coi capelli chiari che brillavano al sole. Col fiato sospeso, Cal cercò di tranquillizzarsi.

Non sarebbe dovuto venire.

Jim era alto e snello, col fisico di chi lavorava la terra dall’alba al tramonto. Aveva arrotolato fino ai gomiti le maniche della camicia a quadri e della giacca, e la salopette gli stava un po’ morbida sui fianchi. Avanzava con passo regolare: né troppo lento, né troppo veloce. Misurato come sempre. O almeno, com’era stato quando era scoppiata la guerra, prima che succedesse… tutto.

Cal cercò di trattenersi e di non corrergli incontro. Sentì un desiderio bruciante, un tuffo al cuore. Negli ultimi tre anni, era quasi riuscito ad autoconvincersi che i suoi sentimenti fossero svaniti. Quasi.

Un cagnone col pelo riccio e marrone sbucò dal frutteto e iniziò ad abbaiare forte. Jim gli fece un fischio e lo richiamò a sé, mentre raggiungeva Cal. Con un sorriso appena abbozzato, Jim allungò la mano. Cal cercò di ignorare l’emozione che gli percorse la schiena quando si strinsero la mano e continuò a sorridere rilassato.

Si diedero un abbraccio veloce e pacche sulla spalla. Erano tutti e due sul metro e ottanta, anche se Jim era un po’ più alto, e Cal non riusciva a fare a meno di pensare a quanto stessero bene insieme. Il suo profumo scatenò una miriade di ricordi che gli attraversarono la mente come un cinegiornale.

Cercando di avere una parlantina sciolta, fece un passo indietro e lasciò che l’animale gli annusasse la mano. «Hai proprio un bel cane da guardia.» Dopo una rapida annusata, il cane gli leccò le dita e si strusciò contro la gamba.

«Oh, sì. Finnigan è un bestione. Ma sta’ tranquillo, abbaia tanto ma non morde. Però tiene comunque i cervi alla larga dagli alberi.»

«Hai grane con i cervi? Aspetta, in queste zone non ci sono mica orsi, vero?» Cal si finse preoccupato.

«Oh, ce ne sono a centinaia. E vanno pazzi per i cittadini.»

«Be’, si sa che hanno un palato sopraffino.» Cal si chinò per grattare le orecchie al cane. «E lui impedisce ai cervi di mangiare la mele?»

«Sì, va in giro per il frutteto e lo sorveglia. Gli ho costruito una cuccia laggiù e fa davvero un ottimo lavoro. Ogni tanto durante il giorno viene a trovarci, ma fa i suoi giretti. È il miglior dipendente che abbia mai avuto.»

«Dovrò competere con te, eh, Finnigan?» Il cane si buttò tutto contento a pancia all’aria e Cal gliela grattò. «Di che razza è?»

«Non lo so neanche io. Si è presentato qui qualche anno fa, magrissimo e zoppicante, non potevamo cacciarlo via.»

«E ora hai alla porta un altro vagabondo.» Cal si sollevò e sorrise.

Jim ricambiò e rispose: «Immagino di sì. Ti piace qui?»

«Sì, è bellissimo.» Agitò il braccio a indicare il frutteto. «E quello, è tutto tuo?»

«Tutti i sessanta acri. Non è molto, ma ci stiamo bene. Immagino che sia molto… spartano, rispetto a quello a cui eri abituato in città.»

«Be’, nel caso in cui tu ti sia già scordato la nostra gitarella sul Pacifico, me la sono cavata anche nelle peggiori condizioni.»

Jim ridacchiò. «Vero. Senti, qui non è come la giungla, ma sei sicuro di volerlo fare? Non è che non apprezzi il tuo aiuto, eh, ma potrei trovare qualcuno di qui. Però tranquillo, non sto cercando di sbatterti fuori.»

Cal gli mise una mano sulla spalla. «Dopo essere stato rinchiuso in un ufficio a New York e Londra, sono pronto per un po’ d’aria fresca e voglio rimboccarmi le maniche. Mostrami la pala, o qualsiasi cosa serva per lavorare in un meleto.»

Jim gli fece l’occhiolino. «Dai, prima ti faccio fare una visita.»

Passeggiarono a loro agio, come se il tempo non fosse mai passato. Jim lo portò nel fienile, che si trovava dopo un piccolo pollaio dove chiocciavano parecchie galline. Nell’interno ombreggiato e cosparso di fieno si vedevano delle attrezzature, diverse stalle per animali e una scaletta usurata che conduceva a un solaio.

Sapeva di terra muschiata mista a un pizzico di letame, ma non era sgradevole. Infatti, quando Jim gli si avvicinò per indicargli come venivano raccolte le uova, il sangue gli si rimescolò tutto. Erano passati solo pochi minuti e già solo stargli vicino lo mandava su di giri. Come sarebbe riuscito a passare ore e ore al giorno insieme a lui senza umiliarsi?

«Lo so, ha bisogno di una ripulita. Ma è stato l’ultimo dei miei pensieri.»

Appena Cal si rese conto che stava facendo una faccia sconvolta, gli sorrise. «No, no, va benissimo. Insomma, qui stanno la mucca e i cavalli?»

Mentre Jim spiegava gli orari in cui mungere Mabel e come ci si occupava di galline e cavalli, Cal annuiva e cercava di stare attento. Ma il cuore gli batteva a mille, come una scolaretta che andava al primo ballo della scuola. Era davvero stato sciocco da parte sua credere che il tempo e la distanza avrebbero cambiato qualcosa.

Lo seguì fino in casa, entrando dalla porta della cucina. Tende giallo chiaro svolazzavano al vento sopra il lavandino e una tavola di legno rotonda era stata sistemata con cura vicino alla dispensa. In un altro angolo c’era un fornello a gas con sopra una pentola da cui si spigionava il profumo dello stufato alle cipolle che sobbolliva.

Cal lo annusò. «Non verrai mica a dirmi che per tutto il tempo passato nella giungla a morire di fame, tu eri in grado di cucinare dei manicaretti coi fiocchi?»

Jim fece l’offeso. «Guarda che nessuno apriva le barrette di cioccolata come me. Ma non posso prendermi il merito per questo.» Indicò la pentola. «Ce l’ha portato la signora O’Brien. Ci dà una mano con Adam durante il giorno e prepara la cena. Ora sarà con Sophie all’autobus che la riporta da scuola prima di andare a casa. Abbiamo anche ghiaccioli di purea di mele. Tra poco ne avrai fin sopra i capelli delle mele, ma ho pensato che per stasera magari ti andavano. Sanno quasi di gelato.»

«Perfetto.» Il dessert era un’ottima idea, ma quando sentì nominare Sophie e Adam, a Cal si strinse lo stomaco. Da quando era piccolo, aveva passato sì e no cinque minuti di fila insieme ad altri bambini. Sperava che non fossero troppo… complicati.

Vicino al fornello c’era un semplice frigorifero bianco. Cal sorrise. «Ma guarda un po’. Prima l’elettricità e ora un frigo. La prossima volta mi dirai che ti vuoi prendere un telefono.»

Jim corrugò la fronte. «E a chi dovrei telefonare?»

«Al resto del mondo? Gente che vuole comprare le tue mele?»

«Ma ho già gente che me le compra. Le prendono tutte quelli dell’alimentari Wilson. Non mi serve il resto del mondo. E poi, l’anno scorso ho comprato un soffione per la doccia. Ho un sacco di diavolerie moderne.»

«Verissimo. Anche se in realtà avresti potuto parlare con me al telefono.»

«Ti ho scritto delle lettere, Cal. Non è colpa mia se sei un pessimo amico di penna.»

«Moi? Questo è un insulto al mio splendido carattere.»

Ridacchiando, Jim lo portò in un salotto che serviva anche da sala da pranzo vicino all’entrata principale. Le pareti erano decorate con una carta da parati floreale ormai sbiadita, con mazzolini gialli, rosa e bianchi. Sulla credenza vicino al divano scuro c’erano delle statuine impolverate. Cal ebbe il sospetto che l’arredamento fosse stato scelto dalla madre di Jim quando la casa era stata costruita durante la Prima guerra mondiale.

Al piano di sopra c’erano tre camere da letto. La prima, che dava sul lato anteriore della casa, aveva due lettini e sotto la finestra c’era una cesta di giocattoli aperta. Sbucavano fuori parecchie bambole e Jim le riordinò, come se si vergognasse per la confusione.

Quella dopo era la stanza degli ospiti, essenziale ma graziosa. Al centro c’era un letto matrimoniale con a lato un comodino. Lungo la parete ricoperta di carta da parati azzurra era appoggiato un comò di quercia.

«Spero che ti vada bene.»

Cal sorrise. «Certo, va benissimo. Ha una bella finestra e tutto quello che mi serve.»

Poi c’erano il bagno e la camera da letto principale sul retro. La testiera del letto di Jim era di semplice legno scuro e, mentre lo osservava, Cal fece un respiro profondo. Jim avrebbe dormito lì ogni notte. Così vicino eppure lontanissimo.

In un angolino vicino alla finestra c’era una specchiera e il resto della stanza era occupata da due cassettiere dello stesso legno scuro. Quella più vicina era di Jim e sopra c’era appoggiato un pettine…

Per un attimo a Cal si fermò il cuore. Vicino al pettine c’era l’orologio d’oro. Deglutì. «Ma quello dovresti usarlo. Ti dice l’ora e tutto. È per questo che te l’ho regalato.»

Jim contrasse le labbra. «Sì, l’ho sentito dire in giro. Ma non voglio che si graffi quando lavoro. Lo metto nelle occasioni speciali.»

«Cos’è, usi il sole per capire che ora è, come un eroe del Far West?»

Jim gli sorrise. «Più o meno.»

Vicino all’orologio c’erano le piastrine da soldato di Jim, tutte ammaccate e attorcigliate con cura. Cal le sfiorò. Una sera, quando stava a Londra, era stato lì lì per buttare le sue nel Tamigi, ma alla fine le aveva messe in cassaforte assieme alle sue carte personali e alle lettere di Jim.

Il suo sguardo continuava a indugiare sull’altra cassettiera. Sopra un centrino di pizzo ingiallito erano posati vari oggetti: un portagioielli di velluto che probabilmente non aveva mai visto ori e diamanti come quelli che metteva sua madre, un pettine e una spazzola in lamina d’oro sistemati per bene uno di fianco all’altro, una boccetta di quello che immaginava fosse un profumo floreale e un barattolo di crema per il viso.

Quello che restava di una vita.

Cal si girò verso Jim, che aveva un’espressione imperturbabile. Ce lo aveva impresso nella memoria sin dal campo di addestramento: solo i suoi occhi tradivano una fiacca tristezza. «Mi dispiace di non essere riuscito a tornare in tempo per il funerale.»

«Eri a Londra a lavorare. Lo capisco.» Jim cercò di sorridere, ma non ci riuscì proprio. Avvicinò la mano a un altro oggetto sulla cassettiera, una foto del matrimonio in una cornice d’argento.

Ann aveva un semplice bouquet, indossava un abito longuette a fiori e un cappellino di merletto sui capelli castani. In braccio a Jim era raggiante, gli occhi le sorridevano. Invece Jim col suo completo aveva una posa seriosa, sembrava rigido e impettito.

Jim raddrizzò un po’ la cornice e poi si allontanò. «È un peccato che tu non abbia avuto modo di conoscerla.»

«Lo so, mi sarebbe piaciuto.»

Cal si sentì sprofondare dalla vergogna. Standosene lì, nella stanza di quella donna, sei mesi dopo la sua morte, provava ancora un briciolo di gelosia e risentimento. Aveva raggiunto tutto quello che lui non aveva mai avuto. Né mai avrebbe potuto avere. Per quanto fosse ingiusto, era come se la odiasse.

Pur avendo condiviso qualcosa con Jim in quei tre anni e mezzo di guerra, non sarebbe mai stato paragonabile a quello che c’era stato tra di loro. La verità era che Cal aveva sperato di non incontrarla mai e tirato fuori qualsiasi scusa possibile e immaginabile per evitarlo. Spesso si era chiesto come stavano insieme. Adesso non avrebbe mai potuto scoprirlo.

Avrebbe dovuto dire a Jim che venire a Clover Glove era stato un errore, chiedergli scusa e andarsene a gambe levate. Senza voltarsi indietro. Alla fine, sarebbe stata la cosa migliore per entrambi. Se fosse rimasto lì, avrebbe finito per incasinare tutto, e poi Jim avrebbe capito se avesse deciso di andarsene ora. Era sempre comprensivo.

Raddrizzando la schiena, fece un respiro profondo. No. Non se ne sarebbe andato. Finora gli era stato lontano per il proprio bene. Ora Jim doveva essere la sua priorità. Anche se non potevano stare insieme come avrebbe voluto, se lo sarebbe fatto bastare. Quando Jim aveva avuto bisogno di lui, non gli era stato accanto, e questa volta non l’avrebbe deluso.

«Hai una casa bellissima.»

Jim sospirò. «Grazie.» Al piano di sotto si sentì sbattere la porta e un rumore di passi. L’aria solenne di Jim si sciolse e gli si illuminò il viso come Cal non l’aveva visto da moltissimo tempo.

«Vieni a conoscere i bambini.»

Copyright © Keira Andrews and Maria Sofia Buccaro (translator)

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